Messaggio del Presidente 2014

Messaggio del Presidente 2014

Racconto una storia prima di tutto perché sento il bisogno di dire che sono orgoglioso di avere con noi persone come Rocio, Sara, Paolo e tutti gli altri nostri educatori; e poi per ricordare anche ad ognuno di noi perché “vale la pena” aiutare la Comunità Oklahoma.

Nel 2015 l’Oklahoma compirà 33 anni. E tra mille fatiche, gioie, speranze e delusioni, siamo ancora qui, tenaci come pochi, convinti che ognuno di noi può lasciare il mondo un poco migliore di come l’aveva trovato.

Di solito quando mi chiedono di parlare dell’Oklahoma cerco di parlare di episodi positivi e di cose belle per incoraggiare chi mi ascolta, per dare un segno di speranza e di ottimismo. Ultimamente mi è però venuto un dubbio. Vuoi vedere che a furia di raccontare del nostro impegno e dei nostri sforzi, la gente finisce col credere che tutto vada sempre bene, che non ci siano mai problemi e che non c’è più bisogno di aiuto? In altre parole non vorrei che subentri l’abitudine e che si dia per scontato che la Comunità Oklahoma esista, accolga i ragazzi in stato di disagio e li aiuti a formarsi, ad integrarsi nella società, dando loro una speranza e magari trovando loro anche un lavoro… come se fosse una cosa banale come bere un bicchier d’acqua.
Allora forse è venuto il momento di raccontare anche di qualche episodio che normalmente tacerei.

C’era una volta un ragazzo che sembrava perfettamente inserito nella vita dell’Oklahoma. Allegro, disponibile, aveva imparato bene la lingua italiana e aveva cominciato a lavorare con una borsa lavoro. Si era anche impegnato in alcune delle attività di volontariato che proponiamo ai nostri ragazzi (perché vogliamo insegnare loro che ognuno di noi può sempre dare qualcosa agli altri). Aveva partecipato agli allenamenti per la Maratona di Milano e aveva corso, divertendosi, in una staffetta. Insomma: avrebbe potuto essere un ottimo testimonial per noi.

Com’è facile scivolare e farsi molto male nella caduta!!!

Un giorno in Comunità erano presenti, oltre ad un educatrice, solo questo ragazzo ed un nuovo arrivato. È bastata una parola sbagliata: è nata una polemica, che si è subito trasformata in litigio verbale, in uno scambio di insulti reciproci ed è finito in una rissa tra i due ragazzi. Cose da ragazzi, penserete voi. Peccato che ognuno di questi due ragazzi pesi quasi 80 chili di muscoli e che i pugni ed i calci che si sono scambiati fossero violenti e cattivi, diretti a fare male.
E a cercare di dividere questi due “energumeni” che si riempivano il viso di sangue e di lividi, in quel momento c’era solo Rocio, una nostra educatrice, stretta tra la paura di farsi fare del male ed il timore di non riuscire a sedare la rissa.

Se avete voglia di capire, chiedete a Rocio di raccontarvi i dettagli, perché il mio racconto non rende assolutamente neanche in minima parte quello che è successo. Questo episodio ha molto scosso gli animi all’interno della nostra Comunità e c’è stato veramente il pericolo di perdere il nostro fragile equilibrio.

Dopo qualche giorno sono andato a trovare Rocio per chiederle come si sentisse.

Ero troppo spaventata dall’accaduto ed avevo paura di tornare al lavoro con quei ragazzi. Continuavo a domandarmi cosa sarebbe successo se invece di limitarmi ad urlare avessi provato ad inserirmi tra i due ragazzi. Si sarebbero fermati o avrei rischiato di ricevere per sbaglio un pugno destinato all’altro ragazzo? E so che non si sarebbero fermati…

In quel momento mi è venuto lo sconforto al pensiero che tutto il nostro lavoro di educatori non era servito a niente. Nella mia testa avevo già deciso che il venerdì sarei andata da Andrea solo per dirgli che mi dimettevo, perché non ha senso mettere a rischio la propria incolumità fisica per “niente”.

Poi quella sera sono andata in una pizzeria dove un altro nostro ex ragazzo aveva cominciato a lavorare da poco. Non ero dell’umore giusto e non ne avevo alcuna voglia, ma ormai gli avevo promesso che sarei andata a trovarlo e così sono andata. Dopo un po’ che ero seduta in pizzeria è arrivata la titolare del locale. È voluta venire a conoscermi per dirmi che era molto contenta di come lavorava, di quanto era rispettoso e volenteroso e mi ha fatto i complimenti per come avevamo aiutato questo ragazzo.

E poi…

…e poi lui si è affacciato alla porta della cucina. Non mi è venuto incontro. È rimasto lì sulla porta per qualche istante. Si vedeva che avrebbe voluto corrermi incontro ed abbracciarmi, ma che non voleva farlo perché ci teneva a farmi vedere che stava lavorando “seriamente”. Poi mi ha salutato con la mano inguantata (per farmi capire che stava lavando i piatti), mi ha fatto il sorriso più bello del mondo ed è tornato a lavorare.

Quel sorriso mi ha aperto il cuore e mi ha fatto ricordare perché vale la pena fare questo lavoro. Quella notte, dopo due notti agitate, ho ripreso a dormire serena. E il giorno dopo sono tornata felice al lavoro. Continuo a lavorare qui perché voglio vedere ancora sorrisi come quello di quel ragazzo.

La storia finisce qui e qualcuno di voi penserà di avere letto una storia pretenziosa di un novello Edmondo De Amicis.

La realtà è che vi ho raccontato questa storia prima di tutto perché sentivo il bisogno di dire che sono orgoglioso di avere con noi persone come Rocio, Sara, Paolo e tutti gli altri nostri educatori; e poi per ricordare anche ad ognuno di noi perché “vale la pena” aiutare la Comunità Oklahoma.

2014 12 giornalino impaginato